Il 24 aprile è un giorno particolare per il mondo della moda. Non si parlerà di colori o di tendenze ma di abiti e di come sono fatti. Soprattutto di chi li fa e dove. Il 24 aprile infatti è Fashion Revolution Day, la campagna internazionale nata lo scorso anno da un’idea di Carry Somers – pioniera del fair trade – per ricordare le vittime del più tragico incidente sul lavoro della storia del tessile: a Dacca, capitale del Bangladesh, il 24 aprile 2013 crollò Rana Plaza, un edificio di otto piani dove erano stipati migliaia di lavoratori impiegati nelle industrie tessili locali: ci furono 1133 morti e 2515 feriti. Nelle fabbriche si realizzava abbigliamento per molti marchi di moda occidentali in condizioni di lavoro e di sicurezza inimmaginabili per i nostri standard. L’edificio era stato giudicato pericolante il giorno precedente ma i dipendenti tessili furono costretti a recarsi ugualmente al lavoro, pena il licenziamento. Ora, la domanda di Fashion Revolution Day rivolta al mondo della moda e ai produttori di abbigliamento che operano a livello globale è molto semplice: Chi ha fatto i miei vestiti? Da qui l’invito a indossare il 24 aprile i propri abiti al contrario con l’etichetta bene in vista, fotografarsi e condividere le foto attraverso i social media con l’hashtag #whomademyclothes, inviandole anche ai grandi marchi della moda e condividendo le loro risposte. Un’iniziativa che sta coinvolgendo in 66 paesi tutti coloro che sono impegnati nel mondo della moda: dai coltivatori di cotone ai lavoratori delle fabbriche, dai grandi marchi ai negozi di abbigliamento, dai consumatori agli attivisti. In Italia la campagna Fashion Revolution Day è coordinata in Italia dalla stilista Marina Spadafora, ambasciatrice di una moda etica e sostenibile e sostenuta da Altromercato, insieme alle Botteghe del Mondo. Fashion Revolution Day è un’iniziativa che mi piace moltissimo. Trovo che il gesto di rivoltare i nostri abiti per portare alla luce informazioni nascoste nelle etichette abbia una un alto valore simbolico. Anch’io quindi ho messo al contrario mia camicia (Bagutta) e sono andata sul sito Fashion Revolutionary Day per scaricare il file con la scritta che più mi piaceva. II sito è fatto benissimo e invita a scegliere la grafica che si preferisce in vari formati.
Dopo la strage di Rana Plaza le reazioni tra i produttori di moda sono state importanti e diffuse in tutto il mondo. Si è attivata una procedura di rimborsi verso le vittime e di maggiore controllo sulle fiere produttive e sulle condoni dei lavoratori. Il cambiamento è e sarà lento ma ineludibile. E’ di qualche giorno fa la notizia che Benetton, una delle aziende che utilizzava la mano d’opera a Rana Plaza, abbia versato oltre un milione di dollari al Rana Plaza Donor Trust Fund, cifra giudicata però insufficiente da associazioni come Abiti Puliti che tengono alta l’attenzione sulle condizioni di lavoro nell’industria tessile globale. Le commemorazioni si sa, per quanto solenni, rischiano di non lasciare un vero segno. La forza della campagna di Fashion Revolutionary Day è nella sua diffusione virale attraverso i social, nella possibilità con un hastag di avere un riconoscimento ufficiale e con un semplice @ di potere rivolgere la domanda CHI HA FATTO I MIEI VESTITI direttamente ai brand. Possono rifiutarsi di rispondere, ma non sarà bello. web: www.fashionrevolution.org facebook: www.facebook.com/Fashionrevolutionitalia twitter: @Fash_Rev_Italia #FashRev Saperne di più: La community di Out Of Fashion, primo corso di formazione sulla cultura della moda consapevole, etica e innovativa, ha dedicato una pagina in memoria di Rana Plaza con informazioni, scritti, immagini, e lavori creativi: Out of fashion per Rana Plaza: in memoria
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