Io non vado ogni volta a Venezia. Ci torno. Torno nella città che amo più al mondo, dove ho vissuto gli anni più belli della mia giovinezza. Torno nell’unica mappa geografica dove io, che mi perdo anche in un supermercato, riesco sempre a trovare la via di casa. Torno in una dimensione che ho sentito subito mia e che ho riconosciuto fin da bambina, quando in gita con la famiglia dalla villeggiatura a Jesolo, guardavo quell’incanto di luce, acqua e palazzi e mi dicevo: “Da grande tornerò qui e vedrò Venezia di notte”.
La vita con le sue meravigliose casualità hanno fatto sì che io a Venezia ci sia tornata davvero, che l’abbia vista tante volte di notte e che ci sia rimasta per quattro anni, come studente fuori sede all’Università di Ca’ Foscari, dove mi sono laureata in Lingua e letteratura inglese. Lo dico non perché ci tenga a ricordare il mio titolo di studio ma perché negli anni a Venezia ho conosciuto il piacere dello studio, la scoperta che la lettura di un libro poteva aprirmi nuovi mondi, farmi entrare in altre vite, conoscere altri pensieri e ragionamenti.
Venezia mi ha regalato le lezioni nell’aula Mario Baratto, la più bella di Ca’ Foscari perché si affaccia su Canal Grande, intitolata al nostro professore di Letteratura italiana, un intellettuale finissimo e di grande umanità che noi studenti riconoscevamo come un maestro. Ero una ragazzina ma mentre prendevo gli appunti delle sue lezioni su un quaderno sempre troppo disordinato, avevo la consapevolezza di vivere momenti privilegiati che speravo mi sarebbero rimasti nella mente e nel cuore.
Lo sono rimasti, così come è rimasto per sempre nel mio cuore l’appartamento di studenti di calle della Chiesa, che dividevo con mia sorella Luisa e poi con Rossana, Isa e Lorella, una casa diventato presto il quartiere generale di un gruppo di amici con i quali ho diviso anni indimenticabili. Un alloggio sgarrupatissimo anche per gli scarsi standard degli anni ’80, dove i letti erano brande con le rotelle, gli armadi di plastica si aprivano con le cerniere e i comodini erano cassette della frutta. Ma in cucina Isabella, bravissima cuoca e studente di architettura, preparava fantastici manicaretti con quel poco che riuscivamo a mettere insieme con la cassa comune mentre un salone, privo di mobili e anche di riscaldamento funzionante, si affacciava sul giardino segreto di un palazzo nobiliare, da dove la moglie del proprietario, un’altezzosissima musicista giapponese, si esercitava con l’arpa.
Per studiare io andavo alla biblioteca universitaria e frequentavo il laboratorio di lingue, dove mi esercitavo al test di dettato ascoltando audiocassette con le incisioni di brani dell’Ulisse di Joyce: mentre scrivo sorrido al pensiero di come si studiava nell’era pre digitale!
Le settimane a ridosso degli esami andavo alla Biblioteca Querini Stampalia che rimaneva aperta fino a mezzanotte: un altro posto magico, oggetto già ai miei tempi di una bellissima ristrutturazione ad opera di Carlo Scarpa, che regalava anche l’incanto, una volta chiusi i libri, della vista notturna di Campo Santa Maria Formosa, deserto e quasi metafisico. Vista l’ora, tornavo a casa a passo lesto, non nel timore di cattivi incontri ma per guadagnare un po’ di sonno. Credo che lo sia ancora, ma Venezia negli anni ’80 era un posto molto sicuro anche per una ragazza che si aggirasse per le calli in compagnia del solo battere di tacchi.
La luce dei lampioni illuminava il selciato e nella solitudine del percorso verso Dorsoduro ricordo il gioco mentale di immaginarmi dentro il set di un film ambientato nel ‘700, senza che ci fosse bisogno di ritocchi scenografici.
Adoravo vivere a Venezia, amavo tutto di quella città, anche la nebbia che invece mi angosciava quando tornavo in provincia di Brescia e non riuscivo neanche a vedere il profilo del capannone aziendale davanti alla casa dei miei.
Studiavo molto ed ero regolare con gli esami perché sentivo la responsabilità dell’impegno economico dei miei genitori ma a Venezia vivevo in una condizione di libertà assoluta che mi rendeva felice. E’ stato bellissimo essere giovane, sentirmi così indipendente e al contempo così consapevole del mio presente.
Venezia mi ha anche regalato il primo amore adulto, una storia intensa e struggente, perché difficile e piena di ostacoli che non ha retto alla prova del tempo e si è bruciata nel giro di pochi anni lasciandomi però la percezione di avere vissuto, a vent’anni, qualcosa di unico. Quando ero giovane e innamorata pensavo che niente sarebbe stato così come allora e mi domandavo quale potesse essere il mio futuro al di fuori di quella condizione tanto perfetta per me quanto transitoria.
E invece Venezia, con la sua bellezza decadente, l’università che si affacciava sull’acqua, la luce che mi riempiva gli occhi di voglia di vivere ogni volta che uscivo di casa sapendo che sarei tornata la sera avendo impararato una cosa nuova, mi ha regalato anche l’assenza del rimpianto.
Da quando ho finito l’università nel 1985 ci torno ogni anno, anche più volte. Da sola o con amiche e amici e da oltre 25 anni con mio marito. E’ stato a Venezia, nel primo viaggio da fidanzati che Luigi mi ha chiesto di sposarmi. Lo ha fatto davanti a una maschera di cartapesta che rappresentava un sole e una luna, dicendomi che poteva essere il primo oggetto da mettere nella nostra casa.
A Venezia ho sempre vissuto il presente e ogni volta che ci torno sento più che mai che quella è la mia casa, il posto dove vivo l’adesso e l’ora. Solo quando passo davanti alla Basilica della Salute, se mi scappa l’occhio sulla scalinata, mi rivedo seduta sugli scalini con il mio compagno di studi Tiziano mentre diamo fondo alla coppetta di gelato comperata alle Zattere. Guardiamo lo spettacolo di Piazza San Marco, della punta della Dogana e del Canal Grande che manda bagliori d’oro come in un quadro del Canaletto. Tiziano fa una pausa, prende l’ultimo cucchiaio del suo gelato e dice: “Sai Paola, stavo pensando che adesso ci troviamo nel posto più bello del mondo”. Ecco, un momento così ogni tanto vorrei riviverlo.
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